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Descrizione

Arrestato a Milano dalla polizia austriaca il 13 ottobre 1820, sotto l’accusa di essere affiliato alla Massoneria - un’associazione che si ispirava a ideali umanitari e progressisti, apparsa in Italia nel 1730 - Pellico venne condotto al carcere di Santa Margherita. Da qui fu trasferito nelle prigioni veneziane dei Piombi, di San Michele ed infine alla rocca dello Spielberg, in Moravia, per espiare in quel lugubre ergastolo della monarchia austriaca una pena di vent’anni, di cui ne scontò soltanto dieci, grazie alla magnanimità del governo austriaco, e nel giugno del 1830 tornò dalla sua famiglia a Torino. All’abate Giordano, curato della sua parrocchia, raccontò le sofferenze della prigionia, e lui gli consigliò di scriverne la narrazione e di pubblicarla, quale alta testimonianza dell’immensa carità del Signore verso gli infelici che ricorrono alla sua grazia.

Temendo di inasprire col suo racconto le passioni politiche, che allora divampavano in Italia ed in tutta Europa, e quindi di farsi dei nemici e non trovare quel riposo fisico e spirituale cui anelava da quando aveva riacquistato la libertà, prima di dare una risposta a quel venerando ottuagenario, Pellico parlò del progetto a sua madre. Una donna non istruita, ma dotata di un intelletto infaticabile, molto devota e di animo caritatevole, la quale gli disse di pregare Dio affinché lo illuminasse; e pochi giorni dopo, Silvio le annunziò l’intenzione di scrivere il libro, ritenendo che potesse ben disporre i giovani a rispettare la religione ed a studiarla.

Nel frattempo aveva ricevuto dalla contessa Eufrasia Solaro una lettera con la quale lo invitava a trascorrere una vacanza nel suo castello di Villanova Solaro ed accettò volentieri la proposta, perché proprio in quei giorni stava cercando un luogo tranquillo dove, oltre riposare il corpo e lo spirito, cominciare la stesura delle Mie Prigioni. Dopo aver scritto i primi capitoli, li lesse alla contessa e, all’insaputa di lei, ad un vec chio del luogo cui era molto affezionato, il quale gli fece presente che la società pullulava di germi di malevolenza, e lo supplicò di tenersene lontano rimandando di dieci o quindici anni la composizione dell’opera.

Tornato a Torino, Pellico riferì il consiglio del vecchio a due altre persone e queste lo scoraggiarono ancor di più, dicendogli di condividerlo. Forse avrebbe rinunciato per sempre a questo progetto, se il conte Cesare Balbo e sua moglie non l’avessero convinto a portarlo in porto, tanto più che anche sua madre era contraria a rinviarne l’esecuzione di dieci o quindici anni.

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Silvio Pellico



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